Quarantadue anni fa, ad Alamein, un centinaio di chilometri
ad ovest del Nilo, è stata combattuta la più grande
battaglia in terra d'Africa
della II guerra mondiale. Il fronte, su terreno completamente desertico, era
compreso, da nord a sud, fra la costa del Mediterraneo e il ciglio della grande
depressione di El Qattara; aveva uno sviluppo complessivo di circa 60 km. (40 in
linea d'aria) ed era inaggirabile perché di la dalla sua estremità meridionale
la natura del suolo non si prestava al transito di reparti meccanizzati.
Su questa linea era schierata a difesa l'Armata italo - tedesca con 96.000
uomini, meno di 600 cannoni, poco più di 500 carri armati; la fronteggiava l'
VIII Armata britannica con 220.000 uomini, 1100 cannoni, 1300carri.
Ancor più grande la sproporzione in mezzi cingolati e blindati, pezzi
controcarro, aerei, munizionamento, autoveicoli. Tenuto conto anche della
qualità delle armi e dei materiali, a nettissimo vantaggio dei britannici, la
superiorità in campo dell'avversario risultava pressoché schiacciante.
Consapevole di ciò il comandante dell' VIII Armata, Montgomery, pianificò una
battaglia statica intesa a distruggere sul posto progressivamente, le fanterie e
i carri schierati a difesa. Due potenti forze d'assalto avrebbero attaccato
contemporaneamente a nord e a sud del fronte, con il compito di aprirvi,
ciascuna, quattro corridoi e costituire teste di ponte da rafforzare,
immediatamente con gran numero di corazzati e artiglierie.
Le nostre forze mobili costrette ad attaccare in condizioni sfavorevoli questi
fortilizi irti di bocche di fuoco sarebbero andate incontro a quella progressiva
distruzione che si voleva ottenere; dopo di che non sarebbe stato difficile
mettere fuori causa le rimanenti fanterie, oltretutto dotate di scarsa mobilità
a causa della penuria di automezzi.
Nel fatto la battaglia si svolse in modo alquanto diverso. Si concluse comunque
con l' inevitabile vittoria dell'attaccante che come è noto, dopo dodici giorni
di accaniti, convulsi combattimenti riuscì a mettere fuori causa il nerbo
dell'Armata italo- tedesca costringendone i resti a una lunghissima ritirata.
Assai meno note, invece, le vicende degli aspri scontri avvenuti a sud; vicende
cha videro i paracadutisti della Folgore respingere vittoriosamente ogni
assalto, nonostante l’enorme preponderanza degli attaccanti. Un successo,
questo, tuttora assai poco conosciuto nei suoi termini reali e del quale è
giusto o doveroso mettere in luce l' importanza e l’effettivo significato.
All’ inizio della battaglia la Folgore presidiava un quarto dell’ intero fronte,
quello più a sud. I paracadutisti in linea erano circa 3.000 con 80 cannoni
prestati, da altre unità, poche decine di controcarro (integrati da piccoli
reparti di bersaglieri), pochissimi autoveicoli, proiettili contati. Ne
integravano la forza il 28° Pavia e un altro battaglione, il famoso 31°
Guastatori.
Lo schieramento sul terreno si articolava in una linea principale (di
resistenza) preceduta da un'altra (di sicurezza) sottilissima. Entrambe protette
da campi minati distavano fra loro da uno a tre chilometri. Sul retro, lontane,
stazionavano le divisioni corazzate Ariete e 21° Panzer il cui tempestivo
intervento risultava piuttosto aleatorio e che comunque non si rese necessario.
Di fronte alla Folgore, incaricato dell'assalto a sud, stava il 13° Corpo,
articolato su 4 divisioni, con più di 50.000 uomini, 400 cannoni, 350 carri, 250
blindati, munizioni praticamente illimitate, migliaia di automezzi. A suo
ulteriore vantaggio il totale dominio dell’ aria e, cosa non meno importante, il
terreno, favorevole all’impiego in massa dei corazzati, senz'altri ostacoli che
le Mine.
Per i 3000 paracadutisti diluiti su un fronte di 15 km. e organizzati in centri
di fuoco, di assai modesta consistenza e molto intervallati, il problema della
difesa risultava davvero arduo. Oltre al resto, quasi tutti erano affetti da
dissenteria e seriamente indeboliti da tre mesi di buca.
Tutti, comunque, erano pronti a sostenere l'urto, quale che fosse, ben decisi ad
opporsi con ogni mezzo, allo strapotere avversario. Simbolo o impegno per
ciascun uomo della divisione la consegna Che il comandante, Enrico Frattini,
aveva sintetizzato in due semplici parole: ”non mollare”.
L'offensiva britannica largamente prevista, ebbe inizio alle 21,40 del 23
ottobre con un formidabile tiro di artiglieria. Nelle parole di un veterano del
deserto, il capitano Pietro Santini del 31° Guastatori: “Assistevamo, quasi
ammirati, allo spettacolo che dimostrava una potenza di fuoco mai vista prima in
Africa Settentrionale. All'alba, una densa nube di fumogeni che poi, diradatasi,
svelò un mare di carri armati e blindati davanti alle nostre linee, a perdita
d'occhio”.
Allungatosi il tiro, intere brigate di carri e fanti mossero all'attacco
investendo sul centro, della linea di sicurezza, le compagnie 6 e 19. La lotta
si accese subito furibonda. Come dice il serg. magg. Sisto Bodriti: “ C'erano
mine che esplodevano, mezzi corazzati e cingolati che s’incendiavano, uomini che
saltavano in aria con urla disumane”.
I paracadutisti si accanirono principalmente sulla, fanteria in modo da
dissociarla dai carri e, combattendo selvaggiamente, vi riuscirono quasi
dovunque. Durante la notte un solo corridoio, dei quattro preventivati
dall'avversario, poté essere aperto; ed ebbe allora inizio l'azione di
contrassalto ai mezzi corazzati.
Attaccare carri armati con ordigni lanciati a mano non è facile. Nelle parole
del caporale Vincenzo Girolami: “ Dalla paura, i denti mi battevano talmente
forte che sembravano una motocicletta. Ma i carri erano nelle nostre postazioni
e bisognava far qualcosa. Così saltai, fuori, come gli altri dandoci dentro con
le bombe a mano”.
I carristi britannici, che non si aspettavano di essere contrassaltati a uomo,
dovettero improvvisare caroselli per sottrarsi agli attacchi; pagarono tuttavia
a caro prezzo la loro azione. “ Il contingente incaricato di far breccia, subì
pesanti perdite a causa del cannoneggiamento e della fanteria della divisione
“Folgore” che resistette ferocemente”. — si legge nella storia, del reggimento
corazzato Royal Scots Greys -
Ma con il sopraggiungere della luce, finite ovunque le munizioni, i difensori
furono infine tacitati, gli attaccanti poterono avanzare e investire sul tergo
un'altra compagnia, la 22. Ancor lontana però, intatta, rimaneva la linea di
resistenza che, secondo i piani, sarebbe dovuta crollare prima dell' alba. Il
potente assalto contro il centro della Folgore aveva subito un primo, decisivo
colpo d'arresto.
Di fronte a non più di 350 paracadutisti intere brigate avevano dovuto segnare
il passo perdendo lunghe, preziose ore, e con falcidie talmente elevate in
uomini e carri da costringere i loro Comandi a rivoluzionare drasticamente il
piano d'attacco.
Durante la stessa notte un altro violento attacco, affidato a due battaglioni
francesi della Legione Straniera sostenuti da una colonna di carri e blindati,
fu sferrato contro l'estrema ala destra della Folgore. I fanti, per un totale di
oltre 1300 uomini, aggirarono da sud le difese, tenute dal V battaglione, e
sfociando sulla piana di Naqb Rala le investirono da tergo. Senza indugio il
comandante del V, Giuseppe Izzo, mobilitò la forza di rincalzo (circa 3 plotoni)
costituita appunto per questa eventualità, la suddivise in due gruppi e postosi
alla testa di uno di essi mosse al contrassalto.
Erano meno di cento uomini che, su terreno aperto, affrontavano avversari
quindici volte superiori. La disparità delle forze e del volume di fuoco era
tale che il caporal maggiore, Luigi Mozzato, in posizione arretrata e in grado
di abbracciare con un sol colpo d'occhio il terreno dello scontro, fu indotto a
un più che giustificato pessimismo: “La sproporzione era così evidente da far
pensare che il nemico sarebbe avanzato molto in fretta, giudicai che ben presto
ci saremmo trovati in mezzo anche noi, e con ben poche speranze”. Accadde invece
il contrario.
Suddividendosi in piccoli nuclei e, facendo ricorso, oltre all’audacia, ai più
diversi stratagemmi, i difensori riuscirono a contenere l' impeto degli
antagonisti, poi a farli indietreggiare riuscendo, infine, dopo tre ore di
cruenti scontri, a metterli in rotta. I Legionari, lasciarono sul terreno circa
300 uomini, i paracadutisti perdettero i due terzi degli effettivi. Consistenti
vuoti furono prodotti anche nella colonna mobile di supporto.
Risoluto a ottenere uno sfondamento decisivo, nella tarda serata del 24
l'avversario tornò all' attacco lanciando imponenti forze contro il centro della
linea di resistenza, presidiato dalle compagnie 20 e 21. Benché opposti a grandi
masse di fanti i paracadutisti riuscirono a mantenere il possesso dei centri di
fuoco meno avanzati e a contenere in ristretto spazio la testa di ponte creata
dagli avversari. Quanto ai corazzati fu loro impedito di raggiungere la
fanteria, presi sono tiro alle minime distanze da controcarro e mortai,
soprattutto da due obici da 100 giunti in linea quel giorno stesso su iniziativa
del comandante della 21 ma, Gino Bianchini, furono distrutti a decine mentre
attraversavano l'unico, varco aperto dai genieri nel campo minalo e costretti a
ritirarsi.
Egual sorte toccò, all' imbrunire del giorno successivo, ai fanti (circa una
brigata) rimasti nella testa di ponte. Riorganizzati i decimati residui delle
sue compagnie il Comandante del VII battaglione, Carlo Mautino, ordinò al
trombettiere di suonare la carica e un risoluto contrattacco fece ripiegare in
disordine gli avversari ristabilendo la situazione.
I combattimenti, soprattutto nei centri di fuoco più avanzati, erano stati
aspri, sanguinosi, e ne erano rimaste tracce raccapriccianti. Nelle parole del
Tenente Giuseppe Berti: “Ovunque sparsi, cadaveri. armi spezzate e contorte, due
nostri artiglieri erano immobili, avvinghiati a un pezzo da 47 quasi posassero
per un monumento”. Molto gravi le perdite avversarie: centinaia di uomini,
decine di carri ridotti a carcasse fumanti. Meno di 300 paracadutisti erano
bastati a infrangere il grande assalto alla linea di resistenza.
Falliti i precedenti tentativi l'avversario insistette organizzando potenti
colpi di maglio contro il saliente dì Munassib, presidiato dal IV battaglione.
Nel pomeriggio del 25 mossero all'attacco due reggimenti corazzati, forti di 90
unità, che operando in piena vista vennero falcidiati in breve tempo (22 carri
distrutti). Ma l'assalto più violento si scatenò la sera, preparato da un
terrificante concentramento di artiglieria:”Munassib sembrava un vulcano in
eruzione”. Scrisse Felice Valletti, comandante del IV.
Gravitando principalmente sulla 11 compagnia, due battaglioni di fanti con carri
e blindati dilagarono fra le piccole e distanziate postazioni dei paracadutisti
sommergendoli. Si accese una lotta senza quartiere, che proseguì per tutta la
notte. “Alle intimazioni di resa - dice Tonino Marinoni - rispondevamo gridando
Folgore! e sparando”. Nell'impari lotta la compagnia fu distrutta e i
superstiti, 13 in tutto, ritirati dalla fornace. Ma gli attaccanti paurosamente
falcidiati, dovettero desistere limitandosi, il giorno 26, a un attacco senza
mordente alla 10.ma compagnia.
Dopo di che, convintisi che sfondare a sud era impossibile, i Comandi britannici
ritirarono le forze corazzate accontentandosi di saggiare le difese con puntate
di fanteria che si susseguirono fino alla notte del l-2 novembre.
Al prezzo di un terzo dei suoi effettivi l'esile linea della Folgore aveva retto
all'urto di un intero Corpo d'armata infliggendo all’avversario perdite
valutabili in circa 2500 uomini, più di 100 carri, 150 blindati. Gli uomini
della divisione avevano tenuto fede a se stessi. Ne si smentirono quando, per
ordini dall'alto, dovettero abbandonare le posizioni. Per quattro giorni e tre
notti ripiegarono combattendo, appiedati, portando a spalla, le armi, trainando
i pezzi a braccia, senza alcun rifornimento di munizioni e viveri, con l'acqua
di dotazione che bastò a malapena per le prime ventiquattrore.
Oggi dopo quarant' anni i sopravissuti ricordano e tacciono. Custodiscono nel
cuore l'immagine di quel pezzetto d’Italia, il loro, che tutti insieme
costruirono nel deserto egiziano; una comunità dove i pezzi grossi erano primi
nell’affrontare rischi e assumersi responsabilità, dove la solidarietà reciproca
non aveva confini. Perché questo fu per loro la Folgore: una piccola,
meravigliosa Patria per la quale, valeva davvero la pena di vivere o di morire.
Renato Migliavacca
batteria controcarro con pezzo d a 47/32 comandata
dall'allora ten. Gianpaolo