Poco più che quattordicenne, mi capita un giorno di trovare
nella libreria di un conoscente un piccolo libro (edizione tascabile) che mi
colpì da subito per il titolo: “I ragazzi della Folgore” di Alberto Bechi
Luserna e Paolo Caccia Dominioni.
Avevo già sentito parlare vagamente di questa Folgore, dei paracadutisti, uomini
duri e coraggiosi, sprezzanti del pericolo e dal carattere spavaldo, all’epoca,
e forse anche oggi, dicevano che erano degli “esaltati”; sinceramente non mi
sfiorava neppure l’idea di dovermi gettare nel vuoto saltando da un aereo, il
solo pensiero mi faceva venire la pelle d’oca.
Riuscii comunque a farmi prestare il libro e cominciai la lettura.
Rimasi stupito nel leggere la prefazione poiché si parlava di una Divisione di
paracadutisti che mai venne lanciata in zona di guerra ma si raccontavano le
gesta che questi uomini compirono nell’assolvimento del loro dovere.
Qui mi fermai, continuai a riflettere sul significato della parola “dovere” che
per me, ragazzino, era grande quanto il mare.
Ricorrevano nella mia mente domande a cui non riuscivo dare risposte : dovere
nei confronti di chi? di che cosa? perché avevano il dovere di combattere?
perché morire? e in nome di quale ideale?
Ripresi la lettura con intensità perchè cercavo una risposta alle mie domande.
Rimasi anche stupito nello scoprire che quei soldati erano uomini semplici che
provenivano da ogni rango sociale, erano semplici perché anch’essi avevano
paura, perché anch’essi piangevano e perché anch’essi pregavano.
Non li hanno dipinti, come avrebbero potuto, come super guerrieri invincibili
sempre pronti alla lotta ma erano uomini che nella loro semplicità, sfoderavano
una forza d’animo e una prontezza di spirito non invidiabile ad alcuno.
La loro unione, la loro abnegazione, la forza dei loro ideali li fecero
diventare non a caso degli eroi riconosciuti tali anche dallo stesso nemico.
Trovai finalmente anche le risposte che cercavo.
Il loro dovere era il giuramento che, da soldati, avevano fatto dinnanzi alla
propria Bandiera, l’impegno di compiere ciò che la Patria li aveva chiamati ad
affrontare, l’impegno di meritarsi il rispetto di se stessi.
Il comportamento che con onore e dignità hanno mantenuto questi uomini
nell’imminenza di quella che fu storicamente la sconfitta della Folgore ad El
Alamein, mi ha lasciato un segno indelebile nella mia coscienza.
Lungi da me il pensiero di potermi raffrontare a quei ragazzi “quelli che furono
i Leoni della Folgore”, ma promisi a me stesso, avendo assimilato nel mio DNA
gli stessi valori che sono linfa vitale per affrontare le battaglie della vita,
di poter diventare un paracadutista della Folgore, di essere la continuità della
tradizione dei Folgorini di El Alamein.
Maturo così nel tempo la convinzione di arruolarmi nelle aviotruppe, spinto
dalla sfida di misurarmi con me stesso e dal desiderio di far parte di
quell’elite che pochi riescono a farne parte.
Sarebbe stato per me un traguardo molto importante della mia vita, avrei
dimostrato ancora una volta che con la forza di volontà, l’impegno e soprattutto
l’orgoglio sarei riuscito a raggiungere un ulteriore obiettivo.
Forse nessuno potrà credere, ma non feci nulla per essere esonerato dal servizio
di leva anche se una legge, parlo del 1979, volgeva a mio favore.
Sono convinto che nessun altro avrebbe rifiutato un invito così allettante
servito su un piatto d’argento.
La mia caparbietà vinse ancora una volta, volevo insistentemente diventare un
paracadutista della Folgore.
Volevo cimentarmi in quel duro addestramento di cui avevo sentito parlare,
volevo anch’io essere un “ardito tra gli arditi”.
Il 20 maggio 1982 sono finalmente alla Scuola Militare di Paracadutismo di Pisa.
L’aria è elettrizzante, mi guardo intorno smarrito.
Il caporale istruttore, che mi aveva prelevato alla stazione ferroviaria è
l’unico punto di riferimento, per me soprattutto perché anche lui era della mia
stessa città.
Ma questo non cambiava di certo le cose, per lui ero, come gli altri commilitoni
appena arrivati, solo un allievo paracadutista.
Faccio parte della X^ compagnia “GRIFI”.
Il primo mese è semplice ma duro addestramento formale.
Attività fisica, estenuanti marce sotto il sole cocente, conoscenza delle armi
in dotazione e nel frattempo corvé cucine, servizi di guardia e piantoni in
camerata.
Già in questo primo mese la selezione è drastica, molti mollano il colpo, non ce
la fanno a tenere il ritmo e vengono trasferiti per altre destinazioni.
Non nascondo che anche per me è durissima, ma una iniezione di orgoglio me la
diede mio padre in un momento di collasso mentale e spirituale.
Mi diede quella carica per continuare, pur stringendo i denti ma continuare e
soprattutto credere in me stesso.
Supero l’ostacolo e così affronto il secondo mese di addestramento al lancio.
Un altro mese molto intenso ma importante, ci si preparava al fatidico momento
del primo volo.
Era un continuo provare e riprovare tutte le varie fasi, tutti gli atteggiamenti
che bisognava osservare rigorosamente dall’entrata in aereo, all’uscita e
all’atterraggio.
La conoscenza del paracadute, del suo comportamento all’apertura era
fondamentale.
Non dovevi tralasciare nulla al caso.
Lassù, nel cielo, sei solo.
Nessuno ti può dare una mano, un consiglio,un sostegno.
In quella solitudine devi pensare e agire, devi decidere cosa fare e saperlo
fare.
Così è anche nella nostra quotidianità, pur avendo tutto il conforto e
l’appoggio di chi è ti vicino, nelle tue decisioni, nelle tue ansie, nelle tue
paure e nei tuoi dolori, sei e sarai sempre solo.
Per poter superare questi ostacoli devi avere la forza di reagire, di combattere
e di vincere.
Un insegnamento di vita e di comportamento.
L’addestramento al lancio era per me già motivo di fierezza, stavo facendo
quello che quarantadue anni prima fecero quei “Ragazzi” alla Scuola di
Tarquinia.
Trascorsi quel periodo con molta serenità ma anche nella trepidazione di
giungere psicologicamente preparato a quel grande appuntamento: il lancio.
Il 22 luglio 1982, dopo cinque lanci militari, sono brevettato “PARACADUTISTA”,
brevetto n° 81402.
L’obiettivo, energicamente è stato raggiunto.
Il resto è cronaca.
Vengo trasferito in seguito presso il 185° Gruppo Artiglieria da Campagna
Paracadutisti “Viterbo” nella caserma Pisacane di Livorno con incarico 18/A
–conduttore - inquadrato nella Batteria Comando.
Ulteriore motivo di soddisfazione, faccio parte di quello che fu il glorioso
185° Reggimento Artiglieria schierato e distintosi sul fronte di El Alamein.
Nei mesi a venire vengo promosso Caporale ed in seguito Caporal Maggiore.
Effettuo lanci e pattuglie d’addestramento, esercitazioni di tiro a Monteromano,
guerriglia nei centri abitati a Villafranca in Lunigiana, la prova valutativa di
Poggio al Cerro e prove di ardimento.
Nel Dicembre 82 veniamo chiamati, come Brigata, a partecipare alla prima
missione di pace in Libano.
La nostra risposta fu unanime e forte, racchiusa in un solo grido: "FOLGORE".
Il 185° prenderà parte, mio malgrado, dopo il congedo: 10 maggio 1983.
Come vi dicevo il 20 maggio dell'82 sono alla Scuola Militare di Paracadutismo
di Pisa (5°2°82).
L'impatto è duro, spaesato e rimbalzato qua e là tra la sartoria per la
vestizione, il ritiro del materasso e delle lenzuola, il ritiro degli zaini,
delle scarpe e degli anfibi e la rapata dal famelico barbiere: il famoso Cocis.
I primi due o tre giorni i nostri abiti inevitabilmente erano quelli civili ma
questo non permetteva di andare in giro per la caserma come si suol dire
sbracati. Sempre inquadrati ed accennando timidamente ai primi passi formali
della marcia.
Non vedevo l'ora di avere tutto pronto per entrare nel vivo di questa avventura.
I caporali istruttori nel frattempo ci davano istruzione su come bisognava
tenere l'attenti ed il riposo formale, come e chi bisognava salutare
militarmente (praticamente quasi tutti), ma sopratutto come bisognava
presentarsi di fronte ad un superiore. E qui veniva il bello, c'era tutta un
bella tiritera da formulare "Allievo Paracadutista ecc. ...... X Compagnia
...... 2° Plotone ...... 3^ Squadra ......COMANDI", il fatto è che dovevi
gridarla con tutte le tue forze. Spesso capitava che ti piazzavano a 50 m di
distanza e dovevi farti sentire a scandire nitidamente la tua presentazione. Se
vogliamo era anche un momento divertente, considerato gli scioglilingua che
uscivano dalle nostre bocche ed anche se il tutto avveniva sotto il torrido sole
della caldissima estate dell'82. Ma la cosa più importante era gridare forte,
cadenzato e simultaneamente in un sol coro, al rompete le righe, il nostro grido
di battaglia: "FOLGORE" . Lo si urlava a squarciagola e se anche da poco, già
sentivi che quell'urlo ti infondeva carica e vigore.
E poi si incominciò a marciare sul serio. Eravamo come tanti bambini ai primi
giorni di scuola elementare, intimiditi dalle urla dei caporali che davano
ordini precisi ed immediati, sembravamo più che altro un gregge di pecore al
pascolo. Si marciava molto durante la giornata, ora di sera i piedi si
gonfiavano ed apparivano le prime maledette e dolorose vesciche. Un male cane.
Più facevano male e più ci davano l'ordine di segnare energicamente il passo, il
terreno sotto di noi doveva sempre tremare. Molti facevano fatica a stare in
piedi, ma in quei momenti, pur non conoscendoci ancora tutti, ci si dava forza a
vicenda per continuare e per fare vedere che alla fine la nostra X^ Compagnia
era la migliore della Scuola.
In noi nasceva quello spirito di coesione, di fratellanza, di sfida nei
confronti degli stessi caporali che sadici come non mai ti volevano vedere
strisciare per terra.
Ma questo atteggiamento riservato nei nostri confronti non era altro che la
lezione numero uno: l'unione. Bisognava essere uniti tra di noi, formare un
blocco che ci vincolava ad un legame molto forte che va ben oltre ad ogni
aspettativa di semplice conoscenza o fievole amicizia del momento: il
cameratismo.
Ora di sera eravamo veramente esausti, ma in quell'intervallo che andava
dall'ora di libera uscita (rigorosamente in divisa) all'ora del contrappello
prima della "buonanotte", tutto sembrava cambiare, si formalizzava dal nulla uno
stato di tregua, anche i rudi caporali istruttori si trasformavano quasi in una
figura paterna, ti ascoltavano, ti davano un consiglio, questa atmosfera li
rendeva più umani.
Ricordo che si facevano con loro dei gruppetti e alla fine si domandava sempre
com'era il lancio col paracadute. Quali erano i rischi e se mai erano capitati
inconvenienti più o meno gravi. E loro ti raccontavano la propria esperienza
incitandoti a non mollare per non perdere quel meraviglioso e magico momento che
è il lancio.
Si rientrava poi in camerata per il contrappello. Drammatico momento. Bisognava
aspettare l'ufficiale per l'appello nominale a fianco della propria branda
stando sul riposo formale, caracollando a destra e a sinistra dalla stanchezza
della giornata. Ma non era finito tutto qui. I caporali passavano in rivista
alle nostre brande per verificare se il cubo era stato fatto con la perfezione
che neanche un architetto avrebbe adoperato, per non parlare poi delle scarpe
d'ordinanza, di quelle ginniche e degli anfibi che, sempre lucide anche sotto le
suole dopo la libera uscita, dovevano essere legate tra loro in modo tale che
sul nodo non dovevano fare più di un giro di torsione. Se tutto era a posto
potevi andare in branda e farti un profondo e meritato riposo, altrimenti,
facendoti anche quattro risate (ma anche un po' incazzato), andavi a riprenderti
il cubo che nel frattempo era volato fuori dalla finestra e poi dovevi nel buio
della camerata trovarti le tue scarpe ammonticchiate a tante altre in mezzo
all'androne. Questo faceva parte del gioco, o meglio, questo era quello che
prevedeva la disciplina nei paracadutisti, la perfezione, l'ordine, la pulizia.
Se lo accettavi bene se no eri liberissimo di decidere altro destino, niente e
nessuno ti ostacolava nella eventuale decisione di trasferimento in qualche più
tranquilla caserma di fanteria.
Giorno dopo giorno si rinforzava sempre più questo magnifico vincolo di
fratellanza e spinti dalla voglia di essere i migliori si accettava
coscientemente la dura vita quotidiana di quel primo mese di naia.
Tanti purtroppo non hanno retto il ritmo ed altri sono stati scartati alle
visite di idoneità all'ospedale militare di Livorno. Noi, quelli rimasti, ci
sentivamo già in un certo qual modo gli eletti, anche se ancora molte prove, e
forse le più dure, dovevano ancora venire.
Dopo la suggestiva cerimonia del giuramento cominciò finalmente il corso
palestra. Si entrava nel vivo dell'addestramento. Eravamo anche esentati da
tutti i servizi.
Per diventare paracadutista devi superare alcuni esami ginnico-atletici: i
cinquemila metri da percorrere in almeno venticinque minuti, saltare con un
certo stile tattico il muro di cemento, arrampicarsi sulla corda e il salto
della cavallina.
La vera prova però era la prima sensazione del vuoto saltando dalla torre.
Imbracato e appeso alla carrucola saltavi fuori dalla falsa carlinga scivolando
per alcuni metri sulla fune d'acciaio da un'altezza di sedici metri. Era la
prova del nove, veniva valutata la tua uscita dall'aereo, chiaramente se avevi
il coraggio di saltare. E' capitato anche qui che alcuni facevano dietro front e
ridiscendevano la torre dalla scala. Risultato: scartati.
Le nostre fila si erano di molto assottigliate.
La selezione, fisica e morale, era stata veramente drastica ma la determinazione
fin li dimostrata per raggiungere l'obiettivo finale iniziava a pagare tant'é
che agli occhi dei caporali istruttori venivi visto già sotto un altro aspetto.
Oramai eravamo veramente immersi nella vita militare e giorno dopo giorno si
rinforzava sempre più quel vincolo di cameratismo.
Superate tutte le prove e risultando idoneo alle valutazioni pratico-teoriche,
arrivarono finalmente i giorni dei lanci di brevetto.
Ci consegnano gli stivaletti da lancio che, una volta indossati, sembrava di
avere ai piedi un paio di pantofole, altro che anfibi e dolorose vesciche,
oramai questi erano un lontano ricordo.
Dopo cinque lanci, effettuati fortunatamente senza alcun incidente, ci
consegnano l'ambito ma meritato brevetto: la ali con il paracadute con al centro
la stella militare.
Non avevo mai provato, sino ad allora, neanche un volo in aereo.
Era la prima volta in assoluto.
Il primo lancio lo feci dall'elicottero da trasporto il CH47C - Chinook, lancio
assiale, ultimo alla porta.
L'elicottero si alza dolcemente ma alla prima virata sembrava che il mondo si
rovesciasse a testa in giù.
Cinque minuti di volo e siamo in piedi agganciati con la fune di vincolo al cavo
statico.
Cinque secondi, luce verde, via. Uno dietro l'altro tutti fuori.
In quel momento non hai nemmeno il tempo di pensare alla paura, il cuore batte
forte ma sei come attratto da una forza magnetica che ti risucchia nel vuoto.
Vuoi saltare, devi saltare, lo vuoi dimostrare a te stesso, la paura può essere
vinta, hai superato un duro addestramento e adesso sei all'esame finale, non
puoi e non devi fallire.
Quante volte abbiamo provato quei movimenti, quei gesti che oramai erano
diventati semplici automatismi, bisognava solo metterli in pratica
Sento un forte strattone, il paracadute è gonfio e mi accompagna dolcemente
nella mia discesa.
L'emozione è forte, palpabile, l'adrenalina scorre forte nelle vene ma la paura
iniziale è svanita, l'ho vinta, un urlo liberatorio sancisce quel magico
momento.
Il terreno sotto di me si avvicina e mi preparo all'atterraggio, piedi uniti,
gambe leggermente flesse, capriola e sono in piedi.
Due mesi sottoposto a dure prove e fatiche, ma ora c'è l'avevo fatta.
Nei giorni a seguire si attendeva solo l'ordine di trasferimento al corpo di
destinazione, dove ricominciavi in un certo qual modo la gavetta.
Alla Scuola Militare eri un allievo paracadutista, al corpo un paracadutista
allievo.
Arrivai quindi a Livorno al 185° Gruppo Artiglieria da Campagna Paracadutisti.
Qui l'aria è totalmente diversa.
E' aria di operatività, di azione, qui vengono forgiati quelli che alla Scuola
venivano definiti i Guerrieri.
Vengo assegnato alla Batteria Comando con l'incarico di autiere.
Neanche il tempo di pensare e il giorno dopo mi trovo subito al volante di un
vecchio camion, se non ricordo male il CL55 con il grosso motore in centro
cabina, guida a destra e marce a sinistra e via a girare inizialmente per la
caserma. La praticità, a volte, risulta più efficace della teoria.
Il mio istruttore di scuola guida è un caporal maggiore di Brescia, un gran
bonaccione, ma quante madonne gli ho tirato fuori dalla bocca ad ogni grattata
di cambio che facevo. Alla fine mi dovevo sorbire la mia energica razione di
pompate, certo quelle belle flessioni, classiche e di prassi da noi
paracadutisti, che ritemprano solo il fisico e che non hanno mai ammazzato
nessuno.
Oltre al camion guido anche la jeep AR76.
Dopo circa una ventina di giorni di continue guide, ottengo la patente C-D del
camion idonea sia per il trasporto di uomini che per il traino dell'obice.
Ma a parte l'incarico assegnatomi, l'addestramento era uguale per tutti.
Attività di pattuglia, diurne e notturne, su e giù per quelle belle colline
dell'entroterra toscano, interdizioni d'area, pattuglie guida per i lanci,
addestramento di guerriglia nei centri abitati, prove di tiro nel poligono
militare di Monteromano vicino a Tarquinia, prima scuola del paracadutismo
militare italiano, prove valutative fatte anche al cospetto di delegazioni
militari straniere, prove d'ardimento, lanci, insomma d'annoiarsi proprio non ce
n'era.
L'addestramento era pane quotidiano, la preparazione, la rapidità e l'efficienza
sono d'altronde le prerogative del paracadutista.
Gli ufficiali pretendevano massima determinazione, serietà e consapevolezza del
nostro operato.
Il punto di forza del paracadutista non è solo quello di avere il coraggio di
saltare da un aereo, ma è il sapersi destreggiare con tempestività, decisione e
spirito di sacrificio in ogni situazione e circostanza.
I paracadutisti sono unità d'assalto specializzate, pronti ad agire sia in
piccoli gruppi che a disimpegnarsi in azioni coordinate d'attacco per espugnare
difese e posizioni fortificate.
Queste manovre operative, avvenivano nel poligono di Villafranca in Lunigiana,
sull'Appennino Tosco-Emiliano dove ci si addestrava alla guerriglia nei centri
abitati.
Lo si scorge percorrendo l'autostrada della Cisa, tra Pontremoli e Aulla, sulla
ciminiera di un fabbricato campeggia in grande la scritta "FOLGORE".
Il poligono di Villafranca è un agglomerato di vecchi fabbricati industriali e
civili che ben si adopera per questo tipo di addestramento.
L'area, presidiata da forze difensive, doveva essere espugnata dalle forze
attaccanti che, a bordo di mezzi blindati guadavano un fiume, e poi appiedati e
supportati da un intenso fuoco di copertura aerea (cacciabombardieri ed
elicotteri da combattimento), dovevano in primo luogo eliminare gli avamposti
difensivi, costituiti anche da pezzi d'artiglieria del 185°, ed infine,
combattendo casa per casa, far arretrare i difensori che opponendosi con
efficaci azioni di retroguardia dovevano rallentare il più possibile l'avanzata
degli oppositori.
In quindici giorni di manovre, si mettevano in pratica le più svariate tecniche
di combattimento, la mimetizzazione, fondamentale quando ci si infiltrava nella
fitta vegetazione, arrampicarsi sui tetti delle case per poter meglio osservare
i movimenti del nemico o per meglio piazzare qualche mitragliatrice, scardinare
porte e cancelli, irrompere nelle case con il lancio di bombe a mano ,
utilizzare i fumogeni per l'attraversamento di strade, tecniche di aggiramento
ed inoltre ci si addestrava all'utilizzo delle armi in dotazione:
mitragliatrici, bazooka e lanciafiamme.
Grazie a questo addestramento, acquisivamo e dimostravamo alta capacità ed
efficienza sia a condurre manovre d'attacco che difensive.
Nel mese di agosto l'Italia aderì, per la prima volta nella storia del
dopoguerra, alla forza multinazionale nell'ambito della missione di "peace
keeping" in Libano.
Questa prima missione denominata "Libano 1" durò solamente sette giorni. Ma il
riacutizzarsi delle ostilità tra israeliani e palestinesi, lasciava intendere
che ben presto un altro contingente avrebbe messo piede sul suolo libanese.
E così verso la fine di settembre, i telegiornali davano notizia che i
paracadutisti della Folgore erano pronti per partecipare alla nuova missione
"Libano 2".
La notizia di un nostro intervento ci elettrizzava, la Folgore veniva chiamata
ad affrontare un compito molto importante e difficile, ristabilire l'ordine e la
sicurezza e portare un aiuto umanitario alla popolazione. Per noi era motivo di
orgoglio e anche se eravamo militari di leva, le Istituzioni Italiane sapevano
che potevano contare su uomini comunque preparati e determinati ad assolvere nel
migliore dei modi il compito loro assegnato.
Dopo esattamente quarant'anni dagli epici fatti d'arme di El Alamein, la Folgore
con il 1° battaglione carabinieri paracadutisti Tuscania ed il 9° battaglione
paracadutisti Col Moschin, metteva piede in suolo straniero.
Nel frattempo in caserma la vita procedeva regolarmente, l'attività di
addestramento era di routine come sempre, nulla era cambiato.
Nel nostro animo però c'era qualcosa di diverso, seppur consapevoli dei rischi e
dei pericoli di quella missione, qualora fossimo stati chiamati anche noi, ci
sentivamo fieri di portare un nostro aiuto a quella popolazione martoriata da
anni di guerra e di adempiere al compito che la Patria ci stava affidando con la
stessa determinazione, capacità ed impegno sin lì dimostrati.
Livorno, 9 maggio 1983
Graduati, Paracadutisti e Artiglieri del 5°/II/82
nel momento in cui vi accingete a lasciare il Gruppo, al termine del vostro
servizio, desidero rivolgervi l'apprezzamento per quanto avete fatto.
Il Gruppo, anche per vostro merito, ha ricevuto consensi unanimi da varie
direzioni, per l'efficienza palesata in attività addestrative, operative e
dimostrative, talune anche alla presenza di alte autorità nazionali e straniere.
Voglio ricordare le scuole di tiro, le esercitazioni di combattimento negli
abitati, la prova valutativa di artiglieria, le dimostrazioni d'ardimento.
Avete adempiuto all'obbligo costituzionale chiedendo di prestare servizio nelle
aviotruppe, specialità che richiede coraggio e sacrificio: siate fieri della
vostra scelta e del dovere compiuto.
Tornate ora alle vostre case più maturi, con un carico di esperienza del tutto
particolare, dovendo affrontare problemi risolutivi per il vostro avvenire:
ultimare gli studi, cercare un'occupazione, riprendere il lavoro interrotto.
Unitamente all'augurio di ogni fortuna, vi rivolgo l'invito a superare gli
ostacoli che inevitabilmente ognuno incontra con determinazione, lealtà e
generosità . . . . . . . . . da paracadutisti.
FOLGORE!
IL COMANDANTE DEL GRUPPO
Ten. Col. t SG Silvio Luccetti